Enrico Ruggeri, il cantautore dai mille volti

L’artista – sabato Super Ospite a Sanremo – parla del suo nuovo disco. «Ho voglia di tornare presto sul palco, anche a Padova»

 

 

Intervistare Enrico Ruggeri significa confrontarsi con un capitolo della musica italiana che si è sviluppato in metamorfosi di pagine musicali diverse tra di loro. Ruggeri è un camaleonte che assume nuovo colore non in base alle mode, ma attraverso le fasi della vita di un uomo che oggi può vantare (anche se non lo fa) un repertorio autoriale variopinto. Un libro fatto non solo di pagine filtrate, ma anche di bozze che rugano il volto di un uomo che non ha mai avuto paura di sperimentare, vincere e sbagliare.
Prima d’iniziare l’intervista, gli premetto che la sua presenza a questo Festival in qualità di Super Ospite (si esibirà sabato sera) regala un valore aggiunto a Sanremo. «Che Dio ti benedica», risponde di getto incrociando le mani.
Nella sua carriera ha scritto molte canzoni per grandi interpreti, ma che non ha mai disdegnato d’interpretarle.
«Sarebbe innaturale scrivere e non cantare canzoni mie. A dire il vero, dopo Ivan Cattaneo fui uno dei primi ad incidere un album di cover, questo perché amo anche la musica di tanti miei bravi colleghi. Detto questo, la mia indole è quella di scrivere, che siano canzoni, libri o trasmissioni televisive poco importa. Ora sto sperimentando anche la parte giornalistica di me stesso, cimentandomi con una trasmissione su Radio 24. Mi piace raccontare la vita agli altri, ma è anche giusto non soffocare la parte più narcisista del proprio io».
Perché da un po’ di tempo non scrive più per altri cantanti?
«Aspettate l’uscita del mio nuovo album e solo allora capirete che non è così».
Al Festival proporrà un brano dedicato a Gaber, Iannacci e Faletti, autori che davano molta importanza anche alla teatralità della musica. Qualche anno fa propose infatti un tour teatrale che riscosse molto successo. Pensa che sia una strada ripercorribile?
«Sto finendo di lavorare al nuovo disco e di sicuro quello di cui ho maggior voglia è tornare sul palco per condividere la mia musica con le persone».
Padova potrebbe essere una delle location?
«Perché no?»
Cosa apprezza del teatro/canzone?
«Re di questo genere fu Giorgio Gaber, un gigante difficilmente avvicinabile. E’ vero, quando mi esibisco in teatro parlo molto, ma questo non significa fare teatro/canzone. E’ il mio modo di vivere il palco con le persone. Preferisco parlare piuttosto che avere una piattaforma rotante con laser e fumogeni. Non è nelle mie corde incitare il pubblico gridando “mi sentite?!”».
Torniamo alla sua carriera. E’ iniziata da punk per poi variare nel rock, nel pop, nella musica popolare e anche nell’elettronica.
«Sul braccialetto che indosso c’è scritto “Punks not dead”, perché il primo amore non si scorda mai. Ma basta guardare ad alcuni autori come Sting, Costello, i Clash… che sono partiti dal punk per generare successivamente grandi cose. Se non avessi iniziato col punk, probabilmente non avrei mai fatto il musicista. Poi c’è stata un’evoluzione umana e artistica, ma dentro di me rimango il biondo cantante ventenne di una volta. Prendiamo poi “Mistero”: forse è uno dei pezzi più rock fra quelli che hanno vinto il Festival di Sanremo. Ad ogni epoca corrisponde un genere musicale che, in quel momento, era a me più vicino».
Pur non facendolo, è molto interessato al rap, un genere che di questi tempi sta trovando sempre più spazio.
«Da bambino ricordo che cantautori quali Guccini, De Gregori, Ciampi, Tenco, mettevano il testo al centro della canzone. Spesso queste canzoni si muovevano su binari musicali molto semplici, relegando al testo il ruolo principale. Penso che il rap debba partire da qui, basarsi su un testo molto importante per essere ricordato e per veicolare un messaggio. Credo poco in un rap che invece si limita ad offendere le persone, perché questo significa relegarsi ad un repertorio che nel rap è mutato. Credo invece in alcuni autori oggi apprezzabili come Dargen D’Amico, oppure J-Ax che ha fatto davvero un bel disco».
Veniamo al Festival di Sanremo 2015. Cosa l’ha colpita maggiormente?
«E’ un Festival forte perché tiene molto in considerazione il mondo delle radio. Credo che, a livello mediatico, verrà premiato da questo. Non importa fare il 70% di ascolto in televisione se poi le canzoni non vengono trasmesse radiofonicamente. Se così fosse, sarebbe un Festival debole. Dalla mia esperienza, posso dire che Sanremo ha tre classifiche. La prima è quella che arriva il sabato sera, con la consegna delle targhe e dei premi vari. La seconda è quella dei passaggi in radio e delle classifiche di vendita. La terza, la più importante, è quella del tempo. Se una canzone viene ricordata, valorizza in automatico il Festival che l’ha ospitata».
Un’ultima domanda riguarda invece il suo ricordo in merito a Mango e Pino Daniele, due colleghi che oggi non ci sono più.
«Verso la fine degli anni ’70 Pino Daniele portò una vera rivoluzione nel cantare in napoletano in modo completamente diverso rispetto a prima. Mango, oltre a possedere una voce meravigliosa, era un esponente di spicco di una ricerca sonora molto profonda, ben radicata nelle culture del sud. Il rammarico è che – dopo la sua scomparsa – Mango sia stato pianto anche da molti radiofonici che non passavano più i suoi pezzi, così come dai discografici che non volevano più produrlo. Questa deve diventare una lezione importante per il futuro. Bisogna tenerseli stretti certi artisti, valorizzare la loro opera prima e non dopo la loro scomparsa».

 

Alberto Sanavia

 

foto di Maria Elena Schiavon