Le opere delle Gallerie dell’Accademia al tempo del Coronavirus

Da qualche settimana le vite di noi veneti – e ora anche di tutti gli italiani – sono inevitabilmente coinvolte dall’emergenza Coronavirus, il noto Covid-19 che continua a mietere vittime in tutto il mondo. Un’emergenza sanitaria che è stata ufficialmente definita “pandemia” e che costringe a rivedere le nostre vite, i nostri ritmi e a guardare al futuro con incertezza, nonostante la speranza che questa situazione possa arrestarsi quanto prima.
Le Gallerie dell’Accademia di Venezia, come migliaia di musei in Italia e in Europa, hanno provvisoriamente chiuso le porte al pubblico. Ma è proprio dalle Gallerie che ci arrivano alcune opere (ne ho scelte 7) che, neanche farlo apposta, sembrano descrivere inconsapevolmente alcune delle tante raccomandazioni che ci suggerisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
In fondo questo è solo un innocente gioco per sdrammatizzare e per fare in modo che sia l’arte ad accompagnarci verso il domani. La bellezza salverà il mondo. Impariamo a guardarlo e ad ascoltarlo.

 

1. Lavarsi frequentemente le mani
2. Non toccarti occhi, naso e bocca con le mani
3. Uscire di casa solo per reale necessità
4. Nei rapporti con le persone mantenere la distanza di 1 metro
5. Evitare gli assembramenti di persone
6. Non prendere farmaci antivirali o antibiotici se non prescritti dal medico
7. Cani e gatti non contagiano gli umani.

 


 

Lavarsi frequentemente le mani

 Sei storie di Cristo - Giovanni Baronzio

Sei storie di Cristo
(Cattura di Cristo; Pilato si lava le mani; Cristo sale sulla croce; Crocifissione; Deposizione dalla croce; Giudizio universale)

L’opera datata al 1325 circa è attribuita a Giovanni Baronzio, pittore riminese di cui si hanno notizie documentate dal 1345 al 1362 (morì poco prima di questa data).
I sei quadri costituivano probabilmente gli sportelli laterali di un dittico, destinato alla devozione privata: al medesimo complesso apparterrebbero le tavole di uguale formato degli Staatliche Museen di Berlino e una Deposizione di collezione privata romana. Le storie della vita di Cristo erano forse distribuite su tre registri.
Curiosità.
-L’opera fu donata nel 1816 dal Legato Girolamo Molin. Restaurata e restituita alle Gallerie dell’Accademia nel 2011 .

-Diverse opere sono d’incerta attribuzione, in quanto vengono legate sia a lui che più generalmente alla scuola riminese. Operò non solo in Emilia ma anche nelle Marche.
-Nella sua opera si mostrò “seguace devoto” del fiorentino Giotto (Venturi Adolfo, L’Arte, 1928 Vol.31-32)
L’episodio.
Il lavaggio delle mani di Ponzio Pilato (secondo riquadro al centro) non fu certo un atto di “pulizia” come impongono le regole anti coronavirus. Anzi. Secondo il Vangelo il politico romano, seppur riluttante nel punire Gesù per aver minacciato l’Impero, compie il gesto di “lavarsi le mani” come omissione di responsabilità nel giudizio. Un atto che, a tutti gli effetti, si trasforma nella condanna a morte di Gesù.

 


 

Non toccarti occhi, naso e bocca con le mani

 San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura

San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura

Il grande telero (414cm x 544 cm) fu realizzato tra il 1547 e il 1548 da Jacopo Robusti detto il Tintoretto. Nato a Venezia nel 1518 e morto nella stessa città nel 1594, è stato uno dei massimi esponenti della pittura veneta.
Curiosità.
-Questa grande tela ha avuto una storia piuttosto travagliata. Realizzata per Sala capitolare della Scuola Grande di San Marco, venne poi sequestrata dalle truppe francesi nel 1797, per fare poi ritorno a Venezia nel 1815 alle Gallerie dell’Accademia.

-L’arteino Giorgio Vasari, pittore, architetto e storico dell’arte, definì Tintoretto “il terribile” per il suo carattere decisamente forte.
-Tintoretto fu così soprannominato in quanto il padre svolgeva il mestiere di tintore di tessuti.
– Dopo la morte di Tintoretto, per volontà testamentaria, fu disteso a terra per quaranta ore, apparentemente nel tentativo di resuscitare.
L’episodio.
Al centro del dipinto si notano due figure, con le mani portate al volto increduli per quanto sta accadendo. Incredulità o no, ai tempi del coronavirus sarebbe meglio evitare di portare le mani alla bocca e agli occhi, se non dopo averle lavate accuratamente.
L’episodio tratta della tortura inflitta da un signore di Provenza, rappresentato sulla destra assiso su di un altro trono, ad un servo, immobilizzato a terra, colpevole di aver disobbedito al suo padrone e di essersi recato in pellegrinaggio a Venezia per visitare il corpo dell’Evangelista, facendo voto di affidare le sue membra alla protezione di questi. L’apparizione miracolosa del santo, invocato dallo schiavo, provoca lo spezzarsi degli strumenti del martirio lasciando esterrefatti il signore, i carnefici e la folla degli astanti. Il carattere teatrale, nel monumentale impianto scenografico e nell’abile regia delle masse, tradisce la familiarità del pittore con gli ambienti del teatro veneziano, aprendo una nuova stagione per la tradizione dei teleri narrativi commissionati dalle Scuole.

 


 

 

Uscire di casa solo per reale necessità

 Diomede fugge nascondendo il Palladio - Vincenzo Giacomelli

Diomede fugge nascondendo il Palladio

Datata 1839, l’opera è di Vincenzo Giacomelli, nato a Grizzo (PN) il 3 aprile 1812 e morto a Venezia nel 1890. Le sue opere furono per lo più di carattere storico e risorgimentale, ma egli ricoprì anche il ruolo di tenente per la Guardia nazionale veneta. Impegnato anche a Milano, Torino e Parigi, fu uno dei precursori del pittorialismo con stampe di fotografia su tela.
Curiosità.
-L’opera fu donata all’Accademia di Belle Arti nello stesso anno della sua realizzazione.

L’episodio.
Ammettetelo. Anche voi vi sentite un po’ come Diomede in questi giorni. Quando uscite di casa avete quello sguardo, con la paura di essere scoperti, chiedendosi “e se mi fermano? E’ giustificato quello che sto facendo?”.
L’episodio fa riferimento all’Illiade, in cui questo eroe della mitologia greca – sbarcato per errore ad Atene – rubò il Palladio (un simulacro ligneo che secondo l’indovino Eleno attribuiva al suo possessore la vittoria della guerra e la protezione della propria città), finito nel frattempo nelle mani di Demofonte (il 12° re di Atene).
Certo, voi quando ora uscite di casa non state rubando nulla. Ma se avete lo sguardo di Diomede, probabilmente sapete che tutta questa necessità in realtà… non c’è. State a casa.

 


 

Nei rapporti con le persone mantenere la distanza di 1 metro

 Rinaldo e Armida - Francesco Hayez

Rinaldo e Armida

Il quadro è stato realizzato a cavallo tra il 1812 e il 1813 da Francesco Hayez, nato nella parrocchia di S. Maria Mater Domini a Venezia il 10 febbraio 1791.  La sua è un’opera giovanile di pieno gusto neoclassico, che strizza l’occhio alle realizzazioni plastiche del Canova. Nella sua età più matura sarà a Milano, concedendosi una parentesi a Vienna per poi tornare il Lombardia. Diverrà uno dei maggiori esponenti del Romanticismo e morirà a Milano l’11 febbraio del 1882. Il suo corpo sarà seppellito nel cimitero monumentale del capoluogo lombardo.
Curiosità.
-L’opera fu inviata nel 1813 all’Accademia delle Belle Arti di Venezia dallo stesso Hayez quale saggio per il quarto anno di pensionato a Roma. Fu talmente apprezzata che lo storico Leopoldo Cicognara lo sostenne  economicamente in maniera generosa.

L’episodio.
Una vicinanza che si trasforma in “schiavitù”, quella di Rinaldo nei confronti di Armida. A descriverci questa scena è Torquato Tasso nella “Gerusalemme liberata”. Questo infatti è quanto vedono i due guerrieri crociati Carlo e Ubaldo, penetrati nel palazzo della maga Armida sulle Isole Fortunate. In un meraviglioso giardino frutto d’incanti diabolici e di tentazioni, i due sono lì per risvegliare Rinaldo da quella sorta d’incantesimo che lo tiene lontano dalla Terra Santa, dove si sta combattendo per liberare Gerusalemme. Una vicinanza che in tempo di coronavirus sarebbe  vietata, in cui il metro di distanza fisico è annullato dalle seduttività amorose. Approfittando del momentaneo rientro a palazzo di Armida, Carlo e Ubaldo risvegliano Rinaldo dal torpore, mostrandogli le armi e facendolo specchiare nello scudo di diamante.

 


 

Evitare gli assembramenti di persone

 Baccanale - Francesco Zuccarelli

Baccanale

La data di produzione della tela si colloca tra il 1740 e il 1750. L’autore è Francesco Zuccarelli (o Zuccherelli) nato a Pitigliano (GR) il 15 agosto 1702 e morto a Firenze il 30 dicembre 1788. Dopo aver lavorato a Roma e Firenze, dal 1732 si trasferì a Venezia passando da soggetti storici più generici ad altri a tema arcadico, con frequenti richiami all’ambito greco. All’estero soggiornò a Londra e Parigi per poi fare ritorno a Venezia e in Toscana.
Curiosità.
-L’opera dal 1807 si trovava nella Villa Pisani di Strà (VE), per passare dal 1923 alle Gallerie dell’Accademia.

-I suoi dipinti spesso portano un marchio che rappresenta una zucca, intesa come rappresentazione pittorica del suo nome.
-E’ in Inghilterra che trova fama e fortuna (economica) diventando uno dei membri fondatori della Royal Academy e uno dei pittori preferiti da re Giorgio III.
L’episodio.
Gli assembramenti di persone sono un chiaro veicolo di trasmissione del coronavirus, motivo per cui essi sono vietati, sia che si stia in casa tra amici o anche fuori al parco. Gruppi di persone = baccano, motivo per cui il “Baccanale” di Zuccarelli è l’esempio perfetto di ciò che si deve evitare in questo momento.
Se in epoca romana si fa riferimento al dio Bacco, in realtà la sua radice affonda le origini nella Magna Grecia, tema con cui il Zuccarelli andava a nozze. Originariamente si trattava di un culto misterico e mistico, con donne protagoniste della scena (le baccanti). Vino, musica e danza sono temi centrali di questa rappresentazione. Una perfetta descrizione dello stile del pittore toscano, presente anche in quest’opera, ce la consegna Pietro Selvatico nel 1863: “I suoi alberi color verde pomo, lumeggiati a giallolino, hanno frondi e tronchi di pura fantasia. I suoi sassi hanno un che di lanoso e di molle che lor toglie l’ aspetto roccioso della pietra infranta ; i suoi orizzonti son languidi. Il meglio sta nei cieli, le cui nubi si svolgono quasi sempre leggiere e ben aggruppate. E allettano pure que’ suoi pastorelli, quelle sue contadinelle, perchè toccate con molto brio, e ben colorite, sebbene nella posa risentano le smorfie del secolo”.

 


 

 

Non prendere farmaci antivirali o antibiotici se non prescritti dal medico

 Il farmacista - Pietro Longhi

Il farmacista

Pietro Longhi nacque a Venezia il 15 novembre del 1701 e morì nella sua città l’8 maggio del 1785. La pittura sacra o mitologica furono per lui solo un piccolo inizio, perché è nella rappresentazione della realtà che esso trova la chiave di volta del suo stile. Centinaia i suoi quadri, molti dei quali a rappresentare la vita veneziana in tutti i suoi aspetti. L’utilizzo della luce e il posizionamento dei soggetti come in una scena teatrale portano al naturale confronto con il commediografo Carlo Goldoni, con cui condivise stima e amicizia.
Curiosità.
-Questo quadro olio su tela, realizzato nel 1752, fu donato alle Gallerie dell’Accademia nel 1838 da Girolamo Conti.

-In precedenza la presente composizione faceva parte della raccolta Contarini a Venezia.
-Dal matrimonio con Caterina Maria Rizzi, Longhi ebbe 10 figli ma solo tre di loro (tra cui Alessandro che ne seguì le orme) raggiunsero la maggiore età.
L’episodio.
Il fai da te non è contemplato in medicina, soprattutto se le prime avvisaglie del coronavirus rischiano di essere confuse con quelle di una comune influenza che colpisce le vie respiratorie. E’ vero, chi avesse sintomi può chiamare i numeri telefonici predisposti senza mettere a rischio la salute di medici, farmacisti o altre persone presenti sul luogo. Ma un altro messaggio è chiaro: seguiamo gli esperti, non improvvisiamo.
Una didascalia settecentesca descrive così la situazione: “Vezzosa giovanetta un morbo assale, che rauca rende la parola e il canto, l’esamina un perito e scrive intanto, medica penna la ricetta al male”. Nella scena rappresentata l’ambiente è cupo ma spazioso e si possono notare un fornello con recipiente su cui è chino un garzone, una pianta di aloe o agave (entrambe con proprietà medicinali) e una scrivania sulla quale un anziano scrivano è chino su un libro. Due persone sono probabilmente in attesa di visita (tra cui un prelato), mentre la donna al centro è pronta a farsi scrutare in bocca dal farmacista, la cui ampia veste gialla copre anche i calzoni. Il quadro appeso alla parete di fondo sarebbe una Natività realizzata dal Balestra, che M. Abis trovò in una collezione privata a Venezia (Pietro Longhi, allievo del Balestra, “Arte figurava” 1961).
 


 

 

Cani e gatti non contagiano gli umani

 L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo - Tiziano Vecellio

L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo

Questo dipinto sarebbe stato realizzato a cavallo tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 da un allora giovane Tiziano Vecellio, nato a Pieve di Cadore nella prima decade del 1.480 e morto a Venezia nel 1576. Tra i maggiori esponenti della pittura tonale insieme a Giorgione, fu esempio di artista imprenditore di se stesso. Nonostante nella sua carriera abbia lavorato in diverse città d’Italia (e non solo), restò sempre legato a Venezia divenendo pittore ufficiale della Serenissima dopo la morte di Giovanni Bellini.
Curiosità.
-E’ un tema ricorrente tra famiglie mercantili che, nell’occasione del primo viaggio intrapreso dai membri più giovani, invocavano la protezione dell’arcangelo Raffaele, associato al ruolo di guida.

-La presenza in basso di uno stemma fa pensare che l’opera di Tiziano sia stata commissionata da un membro della famiglia dell’umanista e letterato Pietro Bembo.
-Il quadro proviene dalla chiesa veneziana di Santa Caterina su un altare dedicato all’Angelo Raffaele sul lato destro della chiesa.
-Secondo alcuni critici, s’individua nel gesto dell’Arcangelo Raffaele un riferimento iconografico preciso alla Creazione di Adamo della Cappella Sistina, motivo per cui collocherebbero il dipinto tra il 1511 e il 1514.
L’episodio.
E’ come se se lo sentisse Tobiolo, che il suo cagnolino non gli avrebbe attaccato alcun coronavirus e anzi lo avrebbe accompagnato in un viaggio davvero speciale. L’episodio – più volte rappresentato soprattutto nella scuola fiorentina – è tratto dalla Bibbia, più precisamente dal Libro di Tobia. Tobi, uomo povero ma giusto, invocò l’Angelo Raffaele (arcangelo solo nei testi apocrifi) per accompagnare il figlio Tobiolo a riscuotere un credito di dieci talenti d’argento contratto dieci anni prima. Senza rivelarsi – se non alla fine del viaggio – Raffaele indica al giovane la strada più sicura, salvandolo in più occasioni. Sulla mano sinistra Tobiolo trascina un pesce catturato nel Tigri e con la cui bile riuscirà poi a guarire il padre dalla cecità. In questo percorso il cagnolino di Tobiolo lo volle seguire e, anche se qui la sua espressione appare un po’ contrariata (probabilmente dall’improvviso dispiegarsi delle ali di Raffaele), lo riportò a casa. Sano e salvo.

 

 

Alberto Sanavia